Per secoli i cacciatori inuit hanno navigato nell’artico costruendo complesse e precise mappe in rilievo per definire giorni di viaggio, variazioni geologiche, e climatiche [1], orientandosi in base al vento, alla neve ed al cielo: oggi usano i GPS.
Come stanno cambiando le culture?
Un tempo la popolazione aborigena che parla il Gurindji aveva ideato 28 modi per indicare i punti cardinali: oggi i giovani sono in grado di usarne solo quattro, e male. Sulle Ande, la popolazione degli Aymara aveva sviluppato un modo unico di intendere il tempo immaginando il passato di fronte, e il futuro alle spalle: oggi le nuove generazioni lo immaginano invece come gli Occidentali.
Secondo il professor Kensy Cooperrider, scienziato cognitivo dell’università di Chicago, questi sono segnali evidenti che nel mondo c’è sempre meno diversità cognitiva [2].
La globalizzazione (quel processo di integrazione economica, culturale e sociale tra le diverse aree del mondo capitanato dall’occidente) tra le altre cose, sta causando gradualmente la scomparsa delle diverse conoscenze tradizionali che coloravano il nostro pianeta fino a poco tempo fa, in favore di una grande, indistintamente condivisa, cultura globale. Verrebbe voglia di salvare queste ‘colorite conoscenze’ dal loro destino, vero? Ma le culture non sono un manufatto del passato da strappare alle intemperie per esporlo in un museo, al riparo, in una teca di vetro. Sono molto di più. Fatte di consuetudini, di parole, di miti, di valori, di simboli, sono esseri in vita, che per vivere hanno semplicemente bisogno di essere vissute.
Sono vive solo finché attive, ed attive finché in grado di produrre significati utili ad affrontare la realtà. Le culture sono un sistema di interpretazione della realtà che orientano l’azione su di essa: e la globalizzazione, agendo sulle realtà delle diverse parti del mondo omologandole economicamente e socialmente, sta facendo qualcosa di diverso dal demolire un oggetto antico e dimenticato, sta erodendo qualcosa che è vivo, e che in quanto tale ha (o ha avuto fino ad oggi) un effetto considerevole sugli esseri umani, sulle loro azioni, e quindi sul presente.
Appartenere a culture diverse vuol dire avere idee profondamente diverse sul senso dell’esistenza umana, sulle sue cause prime e i suoi fini ultimi; vuol dire avere strutture di valori, concezioni del tempo e dello spazio, ed anche legami tra la propria lingua madre ed il proprio pensiero inesorabilmente diversi [3]. E per quanto il dibattito a riguardo non sia arrivato ad una conclusione definitiva [4], possiamo intuire che avere diverse interpretazioni di questi punti cardine possa sostanzialmente definire il nostro modo di pensare, di abitare questo pianeta e di agire.
Oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, stiamo uniformando il caleidoscopio delle diverse visioni del mondo in un’unica, apparentemente irresistibile cultura dominante.
Secondo Cooperrider, siamo di fronte a un cambiamento epocale per la nostra specie: per centinaia di migliaia di anni, parallelamente al suo diffondersi sulla terra, l’essere umano ha sviluppato nuove pratiche, strutture, tecnologie e sistemi cognitivi diversi a seconda dell’ambiente che lo circondava. Oggi, per la prima volta, uno specifico toolkit costruito nell’occidente industrializzato ha iniziato a diffondersi in tutto il mondo; gli altri si stanno abbandonando, per quella che sembra essere la creazione di un unica grande cultura globale.
Eppure le forze che stanno erodendo la diversità culturale (e cognitiva) sono spesso le stesse che aumentano i livelli di alfabetizzazione in tutto il mondo, promuovendo l’accesso all’istruzione e ad opportunità nelle comunità indigene. Quindi c’è da chiedersi non solo se è possibile rallentare questa perdita, ma anche se è giusto provare a farlo [5].
Certo per quanto tutto ciò possa essere frutto del progresso, sembra comunque doveroso chiedersi: a cosa ci stiamo uniformando? Se la globalizzazione porta ad un abbandono dei tratti culturali diversi, ragioneremo tutti allo stesso modo? E se sì, che conseguenze avrà per noi, per le nostre società, e non ultimo per i nostri sistemi cognitivi? Che cosa stiamo lasciando indietro?
Dobbiamo infatti renderci conto che quella occidentale, come tutte le altre, è una cultura parziale, anche se ha pretese universali.
Ogni gruppo umano ha sviluppato un percorso proprio che si è diretto in una direzione piuttosto che un’altra. Le nostre società sono basate sulla tecnica, sono società sostanzialmente laiche, e basta un veloce raffronto con l’oriente per capire quanto trascuriamo la spiritualità; crediamo di essere invincibili, ma non abbiamo ancora trovato un modo di coabitare con il pianeta che ci ospita senza distruggerlo, cosa che ad esempio per un apache non solo era scontato, ma motivato da profonde convinzioni simboliche e rituali; siamo presi da un’irrefrenabile frenesia di conquistare il mondo e ci dimentichiamo di curare noi stessi, le nostre famiglie e le nostre piccole comunità. Abbiamo ancora tanto da imparare, esplorare ed approfondire.
E per quanto il corredo culturale occidentale, con la sua cassetta di strumenti, possa sembrare inscalfibile, non lo è: la storia ci ha mostrato come i contatti tra gruppi diversi anche in contesti di subalternità politica, tecnica o economica (che ci ricordano quelli odierni), hanno portato a cambiamenti sì nella cultura del gruppo subalterno, ma anche in quella del dominante. Esattamente come recita il detto: Graecia capta, ferum victorem cepit [6].
In un bel TEDx Talk del 2019, un’attivista e geografa ambientale, Hindou Oumarou Ibrahim, spiega come una bizzarra collaborazione tra le competenze degli scienziati e le conoscenze ancestrali degli indigeni stia aiutando a combattere efficacemente l’impatto del cambiamento climatico sui territori che più ne sono colpiti. [7].
E’ sorprendente come queste conoscenze che vengono da lontano siano tanto preziose quanto ancora il loro potenziale inesplorato.
Un approccio critico e più curioso verso le culture che inconsapevolmente stiamo spazzando via ci potrebbe venire in aiuto. Forse potremmo essere più consci delle nostre carenze, e curiosi abbastanza da cercare di capire che cos’è che ci stiamo lasciando alle spalle; e magari cercare di rispettarlo, senza distruggerlo. Se il rispetto non è sufficiente come motivazione, quanto meno lo sia la promessa di poterne imparare qualcosa.
Se ci stiamo uniformando, cerchiamo di capire a cosa.
Maria Foti
[1] Palagiano C.; Asole A.; Arena G. Cartografia e territorio nei secoli. Roma: Carrocci Editor
[2] Da K. Copperrider. “What happens to cognitive diversity when everyone is more WEIRD?” in to-cognitive-diversity-when-everyone-is-more-weird”>https://aeon.co/ideas/what-happens-to-cognitive-diversity-when-everyone-is-more-weird, 2019
[3] Signorelli, A. 2011. Antropologia Culturale. Milano: McGraw-Hill.
[4] Shore, B. 1998. Culture in mind: Cognition, Culture, and the Problem of Meaning. OUP USA.
[5] Shore, B. 1998. Culture in mind: Cognition, Culture, and the Problem of Meaning. OUP USA.
[6] Da Orazio: «la Grecia, conquistata [dai Romani], conquistò il selvaggio vincitore»